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lunedì 28 luglio 2014

LA FIGLIOLITE. Genitori e figli: inquinamento nella formazione (valido anche per i catechisti/e)



       Le malattie dell'educazione di Pino Pellegrino
 
L'acqua può essere inquinata, l'aria può essere inquinata, il cibo può essere inquinato: tutto può essere inquinato!
Anche l'educazione. L'inquinamento pedagogico nasce da alcune malattie da cui possiamo tutti essere contagiati.
Le più diffuse, oggi, in Italia ci pare siano quattro: la 'figliolite', la 'tarantolite', la 'sclerocardia' (la durezza di cuore) e il rachitismo psicologico. Le vedremo, ad una ad una, nel nostro appuntamento mensile. 


La figliolite

La 'figliolite' è la malattia dei genitori che stravedono per i figli, la malattia di genitori che non si decidono mai a tagliare il cordone ombelicale.
Erano ammalate di 'figliolite' le madri di Ronco Scrivia (Alessandria) che nel novembre 1999 divennero furibonde ed insultarono l'allenatore di calcio che, giustamente, aveva richiamato i loro figli.
Era ammalata di 'figliolite' quella mamma che a Porto Viro (Rovigo) nel dicembre 1999 aggredì la dirigente scolastica, la prese per i capelli, strattonandola e spintonandola perché ritenuta colpevole d'aver sospeso per un giorno il figlio che aveva notevolmente disturbato le lezioni.
Era ammalata di 'figliolite' quella mamma che per cancellare le prove della colpevolezza del figlio, bruciò ben sette capolavori del famoso pittore spagnolo Pablo Picasso (1881-1973), rubati dal ragazzo al museo di Rotterdam (Olanda) nel luglio 2013.
Era ammalata di 'figliolite' quella madre dei Parioli di Roma che, convocata dall'insegnante per avvertirla che se non si fosse impegnata di più, la figlia avrebbe rischiato la bocciatura, le urlò in faccia. "Questa è una scuola privata! Io pago. Lei non deve seccarmi!".
Quattro esempi di una malattia (la 'figliolite') che produce solo guai!



Il figlio troppo protetto, infatti, si illude d'essere infallibile, 

perfetto, insindacabile: ed ecco la premessa di un futuro 

despota, di un futuro prepotente. Questo il primo danno 

della 'figliolite'.




 Il secondo non è meno pesante. Dalla malattia pedagogica di cui stiamo parlando nascono i cosiddetti 'figli prolungati': i figli che non si decidono mai a lasciare la famiglia, per andarsene a vivere in proprio. 


Il fenomeno è tipicamente italiano. In Inghilterra e negli Stati Uniti i figli salutano e se ne vanno ben prima di sposarsi, spesso quando iniziano a frequentare l'Università, già tra i sedici ed i diciotto anni. In Francia l'82% dei ragazzi tra i venti ed i trent'anni vive per conto proprio, in Germania la percentuale scende di poco, attestandosi al 74%.

 In Svezia a sedici anni i ragazzi vengono mandati fuori casa (forse anche troppo violentemente!) in Italia no! Qui abbiamo figli che a 35-40 anni (!) continuano a riscaldarsi al focolare del tetto natio.
E così, standosene tranquilli in casa, i ragazzi ritardano sempre più il momento di crescere e maturare.
Un'inchiesta condotta pochi anni fa ha rivelato che il 46% dei ragazzi italiani non ha voglia di diventare adulto. Sono ragazzi culturalmente più preparati di qualche generazione fa, ma con un forte ritardo per quanto riguarda la maturazione umana.
Ragazzi incapaci di farsi carico di sé. Ragazzi insicuri. Ragazzi bonsai!


Mamme, per favore, tagliate il cordone ombelicale.
La psicologa Maria Rosa De Rita ci dà questo consiglio: "A 27 anni, al massimo, buttateli fuori di casa, come ho fatto io. Un giorno vi ringrazieranno!".
Se non possiamo arrivare a tanto (scrivere è facile, il momento è difficile: ne siamo ben consapevoli!) d'ora in poi, almeno, quando a sera torna a casa il 'cucciolone' di 35 anni, non sforniamogli più i sofficini.



Sì, perché, diciamocelo chiaro: non è forse vero che talora siamo proprio noi a non volere che il figlio se ne vada di casa?
Siamo noi che, a conti fatti, non abbiamo imparato ad amarlo.
Chi ama i fiori non li calpesta, né li coglie per sé, ma li lascia crescere, liberi e belli, nel campo.

In termini più pedagogici: amare davvero il figlio è liberarlo dal nostro bisogno di aiuto!
Amare il figlio è desatellizzarlo. 



BOCCIATI IN AUTONOMIA
 
I bambini italiani sono bocciati in autonomia. Lo rivelano serie ricerche che hanno interessato molti Paesi europei e diversi Stati del mondo. Da tali ricerche risulta che appena l'8% dei bambini italiani va e torna a casa da scuola da solo, di fronte al 25% dei coetanei inglesi ed il 76% dei tedeschi.È una delle tante conseguenze della nostra tipica 'figliolite' che rimanda sempre più, come abbiamo detto, l'autonomia del figlio. Accompagnare il piccolo a scuola, infatti, è impedirgli di acquistare sicurezza, è indebolirgli l'autostima, è impedirgli di integrarsi e di rafforzare i legami con le persone del quartiere.
È vero che i pericoli dei bambini non sono un'invenzione. Però è anche vero il proverbio: "Mai la catena ha fatto buon cane". Più vero ancora è quello che ci manda a dire un esperto del mondo giovanile d'oggi, Domenico Volpi: "Vi è in Italia un piagnisteo sui pericoli dei bambini che rasenta l'idiozia!".
Parole decise che ci invitano a liberarci dal cosiddetto 'complesso del bagnino' che vive con il terrore che qualcuno anneghi! 

QUESTO DICO AL FIGLIO ADOLESCENTE

• Non giudicare una persona dalla piega dei pantaloni.
• Meglio gentile nei modi che elegante nella moda.
• Se non alzi gli occhi, crederai d'essere sul punto più alto.
• I pugni non hanno cervello.
• La vita non è una scatola di cioccolatini.
• Ridi di te stesso: avrai materia per stare allegro tutta la vita! 


APPUNTI SUL FRIGORIFERO

• L'educazione si salva salvando gli abbracci, non le urla.
• La mamma troppo valente fa la figlia buona a niente.
• In ogni sorriso vi è un gol strepitoso.
• Chi non ha mai sbagliato, ben poco ha combinato.
• Prima di parlare è bene chiedere permesso all'esempio! 

Bollettino Salesiano Luglio-Agosto 2014 COME DON BOSCO
Le immagini sono riportate dal Web

Cristiani in Iraq: uccisi, depredati...cacciati dalle città




"Non ci sono più cristiani a Mosul"


Uccisi, depredati o, nel migliore dei casi, cacciati da una città che abitavano da (almeno) 1.400 anni: è il destino dei cristiani di Mosul, la seconda città dell'Iraq, travolta dall'offensiva dei terroristi dell'Isis (Stato islamico dell'Iraq e del Levante), il gruppo islamico radicale che - nato e cresciuto in Siria grazie all'incancrenirsi della guerra civile e all'inerzia dell'Occidente - nelle ultime settimane sta conquistando porzioni crescenti dell'antica Mesopotamia. Prendendo di mira, è bene ricordarlo, non solo i cristiani ma tutte le minoranze, a partire dai musulmani sciiti. 

Con un'azione che ricorda i peggiori pogrom della storia, i terroristi dell'Isis e le milizie sunnite che danno loro man forte hanno addirittura segnato le case dei cristiani di Mosul con il corrispettivo arabo della lettera N, iniziale di Nazareni, il nome con cui i seguaci di Gesù sono chiamati spesso nel mondo musulmano arabo. Ai tremila che avevano resistito durante gli anni, già molto difficili, della guerra civile post-Saddam, è stato intimato di andarsene. Non pochi, naturalmente, quelli che sono stati sommariamente uccisi o sono spariti nel nulla. Distrutti o danneggiati anche molti edifici, tra cui il palazzo episcopale dei siro-cattolici e l'antico monastero di Mar Behnam, da cui i monaci sono stati brutalmente cacciati (così come molte sono state anche le moschee sciite distrutte). 

«Ormai nessun cristiano si trova più a Mosul - ha dichiarato lunedì a Radio Vaticana mons. Saad Syroub, vescovo ausiliare caldeo di Baghdad -. Le famiglie fuggite sono in una situazione molto difficile, perché non hanno niente: sono state derubate della loro macchina, dei soldi, della casa, del lavoro. E non possono tornare. Quindi la situazione è molto critica; c’è bisogno di un intervento urgente per aiutare queste famiglie». 

Proprio sulla necessità di un aiuto concreto e immediato insiste un testo firmato da tutti i vescovi iracheni (che rappresentano il mosaico di confessioni cristiane presenti nel Paese) e diffuso martedì scorso. Con una nemmeno troppo implicita condanna della latitanza delle istituzioni di Baghdad e dell'Occidente, i vescovi scrivono: «Attendiamo azioni concrete per rassicurare il nostro popolo, e non soltanto comunicati stampa di denuncia e di condanna: sostegno finanziario agli sfollati che hanno perduto tutto, pagare immediatamente i salari dei dipendenti statali, indennizzare tutti coloro che hanno subito perdite materiali e assicurare alloggio e continuità nella erogazione dei servizi sociali e scolastici per le famiglie che potrebbero dover trascorrere lungo tempo lontano dalle proprie case». 

Se in questo momento prevalgono le necessità materiali resta, sullo sfondo, la preoccupazione per il destino che attende i cristiani nel lungo periodo, in Iraq così come in molti altri Paesi del Medio Oriente.

Dal 2003, anno dell'invasione decisa da George W. Bush, il numero dei cristiani iracheni è sceso da quasi un milione e mezzo a circa 450mila. A Mosul erano 130mila nel 2003, erano già scesi a 10mila un anno fa e ora sono praticamente azzerati. Trend analoghi si registrano in altri Paesi della regione, anzitutto in Siria. 




È anche vero che questi tragici fatti sembrano avere attivato, più che in passato, la solidarietà dei musulmani iracheni nei confronti dei loro concittadini. Come fa notare in un'intervista lo scrittore iracheno Younis Tawfik, da anni esiliato in Italia, «i cristiani iracheni di Mossul hanno più diritto di noi alla loro terra e alle loro case. Abitano la città da prima dell’arrivo dell'islam e noi abbiamo il dovere di proteggerli». A Baghdad domenica scorsa circa duecento musulmani si sono riuniti davanti alla chiesa caldea di San Giorgio per esprimere la propria solidarietà ai cristiani. Molti innalzavano cartelli con la frase «kulluna masihiyyun», siamo tutti cristiani, e con una “N” finale. Anche sui social network si diffondono campagne di solidarietà. 

Intanto anche il Papa non fa mancare la sua voce e la sua vicinanza: martedì ha ricevuto il nunzio apostolico in Iraq, mons. Giorgio Lingua, mentre domenica - durante l'Angelus - ha ricordato la situazione dei cristiani: «La violenza si vince con la pace», ha detto con parole che in questo momento sono drammaticamente attuali in molti luoghi del mondo. 

da  http://www.popoli.info/



martedì 8 luglio 2014

Lampedusa a un anno della visita di Papa Francesco

Attualità...


A un anno di distanza della visita di papa Francesco a Lampedusa, continuano le stragi nel mare, aumentano i soliti barconi con centinaia di uomini a bordo, si pensa a nuovi centri di accoglienza. Tutto questo fa male alla sensibilità umana e cristiana,ma non tutti la pensano così e Ci sarebbe da gridare ancora una volta: VERGOGNA!!

Vergogna Europa, ricca e opulenta, egoista e potente, ma impotente, insensibile alle sofferenze umane. Quando si indurisce il cuore, l’anima vola, non c’è più e questo vale per tutti credenti e non credenti: senza cuore, senza sensibilità per i fratelli diventiamo degli assassini.



Propongo alla sensibilità di tutti questo articolo di Lorena Bianchetti pubblicato in A SUA IMMAGINE


Visto da me


Per una cultura dell’incontro  di Lorena Bianchetti 



Un anno fa Papa Francesco visitava Lampedusa. Ricordo quel giorno: guardai la diretta

in televisione con un foglio in mano e una penna per seguire, anche professionalmente,

il suo discorso, ma le sue parole furono così dirompenti e tremendamente vere da non avere

bisogno di appunti per ricordarle.

 Arrivarono dritte, descrivendo con nome e cognome quella globalizzazione dell’indifferenza incapace di farci sentire l’altro. “La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri” e quelle bolle di sapone “che sono belle, ma non sono nulla, che sono l’illusione del futile, del provvisorio” ci hanno anestetizzato così tanto il cuore da farci girare dall’altra parte alla vista di un fratello mezzo morto sul ciglio della strada.



Non sappiamo più piangere per l’altro, non sappiamo ascoltare più il grido e il lamento dell’altro e spesso riusciamo, con ipocrisia, a liquidare la notizia al telegiornale della morte di un immigrato con l’espressione “poverino”.



La sofferenza dell’altro non è affare nostro e anzi distoglie dalla corsa malata a un potere

che vuole gongolare sempre più un narcisismo imperante piuttosto che servire. “Parole dure,

come cazzotti”, così definiva Gian Antonio Stella quanto detto da Papa Francesco all’indomani della visita a Lampedusa nell’editoriale del Corriere della sera.



 E quella richiesta di perdono ai morti nel mare è stato uno schiaffo alle coscienze di

chi deve collaborare perché il Mediterraneo, da culla di civiltà, non diventi un cimitero. Nessun

paese può affrontare il fenomeno migratorio da solo, serve collaborazione tra gli stati e i media che, come scrisse il papa nella giornata del rifugiato, sono chiamati a smascherare quegli

stereotipi che non informano correttamente.



Sono testimonial dell’Unhcr, (Alto commissariato Onu per i rifugiati), sento particolarmente questo argomento: tutte le persone che lasciano il proprio paese scappano dalla morte per cercare una nuova vita uccisa, quando va bene, dal pregiudizio, dall’indifferenza e dall’emarginazione.



A Lampedusa si lavora tanto, con il cuore, per accogliere questi fratelli ma la gente del

posto non può essere lasciata sola. Serve l’impegno di tutti per fare in modo che la

cultura dello scarto, prodotta dal relativismo caratterizzante questo nostro periodo storico,

sia ribaltata e trasformata nella cultura dell’incontro e dell’amore.
Lorena Bianchetti, giornalista e conduttrice televisiva

«Dov’è tuo fratello?», la voce del suo sangue grida fino a me, dice Dio. Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi. Quei nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. Quante volte coloro che cercano questo non trovano comprensione, non trovano accoglienza, non trovano solidarietà – e le loro voci salgono fino a Dio. E un’altra volta a voi, abitanti di Lampedusa, ringrazio per la solidarietà! Ho sentito recentemente uno di questi fratelli. Prima di arrivare qui, sono passati per le mani dei trafficanti, quelli che sfruttano la povertà degli altri; queste persone per le quali la povertà degli altri è una fonte di guadagno. Quanto hanno sofferto. E alcuni non sono riusciti ad arrivare.

«Dov’è tuo fratello?» Chi è il responsabile di questo sangue?
 DAL DISCORSO DI PAPA FRANCESCO A LAMPEDUSA





domenica 6 luglio 2014

Una piccola provocazione per i catechisti (con tanto affetto): ma il catechista non è solo questo...forse anche alcuni sacerdoti hanno qualcosa da rivedere



 Condiviso da You Tube ( se vuoi commenta e dì la tua)

Mi è stato commissionato un video per provocare una piccola riflessione sull'attuale metodologia catechistica della mia diocesi.
Troppo spesso il catechismo viene visto come finalizzato ai sacramenti, un onere da portare avanti, un affare privato dei catechisti.
Io penso che per attenuare la fatica ed ampliare i frutti occorra che TUTTA LA COMUNITA' PARROCCHIALE si senta partecipe; vengano coinvolte LE FAMGLIE dei bambini; si consideri il "catechismo" come un PERCORSO DI VITA, da 0 a 200 anni.
Chiedo scusa all'autore dei disegni se mi sono permesso di modificare le sue bellissime vignette senza la sua autorizzazione, ma pur avendolo cercato non sono riuscito a trovarlo. Le tavole le ho tratte da elledici.org, dove potete trovarne altre divertenti.
Le canzoni di sottofondo sono "Occhietti furbetti" di Stefano Rava (in una versione da me ritoccata) e "Ventiquattro piedi siamo" di Michele Paulicelli tratta dal musical "Forza Venite