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venerdì 17 maggio 2013

Chiesa, famiglia e nuove generazioni






 Senza l’aiuto della famiglia, la 

 Chiesa può fare poco.

 In un contesto sociale e culturale ormai scristianizzato
le nuove generazioni rischiano seriamente

di crescere senza valori,

perché non li hanno conosciuti.




            Chi opera nella catechesi finalmente si è accorto che manca qualcosa nello stabilire un dialogo serio, convincente con i ragazzi. A parte i problemi pratici di ogni parrocchia, ci siamo accorti che il mondo è cambiato, la famiglia non è più come una volta: stiamo assistendo, già da un  po’ di tempo, ad un continuo allontanamento dalla frequenza ai riti religiosi, e forse ci siamo abituati alle frequenti separazioni dei coniugi, ai divorzi che non fanno più scandalo né notizia ma diventata prassi comune.

Contemporaneamente c’è una prassi abitudinaria, da parte dei genitori, di mandare i figli al catechismo in preparazione della prima comunione e della cresima.

Mandare, posteggiare e che se la sbrighino i preti. Sarà menefreghismo, ignoranza, o credenza che arriva da lontano come prassi e tradizione?


Perché?


Sicuramente ogni parroco e ogni catechista avranno tante risposte da dare a questa domanda. Ma prima vorrei che rispondessero a queste altre:

Avete fatto attenzione alla crescita dei vostri ragazzi? Vi siete preoccupati di condurli verso scelte libere nel rispetto della loro maturazione umana e cristiana? Conoscete, dico conoscete, le loro famiglie o avete cercato seriamente di coinvolgerle nella formazione cristiana dei lori figli?

Forse avete rinunciato ad avvicinarle credendo che non si sarebbero fatte avanti, ma avete prima studiato un piano di coinvolgimento? Non dobbiamo decidere solo noi, facciamolo insieme!

Eppure sappiamo tutti come sia importante il ruolo della famiglia nell’educazione religiosa dei loro figli: una famiglia unita, che si parla, che comunica, che non rimane isolata in mezzo ai tanti problemi della vita, che crede in Dio e prega.

Parliamo della famiglia, per porre le basi per un avvicinamento serio e un loro coinvolgimento futuro.


Da un articolo di Corrado e Nicoletta Demarchi,  pubblicato in: “Vita diocesana Pinerolese,  03 aprile 2011


“Orientare i figli al bene significa aiutarli a diventare persone buone, corrette ed oneste”.

E’ opinione diffusa che, mentre la buona educazione e le buone maniere debbano essere insegnate ai figli dai genitori, l’educazione religiosa debba invece essere competenza di terzi: del parroco, delle catechiste, degli animatori.

Il documento di programmazione dei prossimi dieci anni proposto dai vescovi italiani dal titolo “Educare alla vita buona del Vangelo” sottolinea questa preoccupante situazione.

Un’ora alla settimana non è sufficiente per far maturare nei bambini il desiderio di crescere nella fede. Anzi, tornando a casa e vedendo il disimpegno dei familiari, penseranno che quanto hanno appreso all’oratorio non è degno di essere approfondito e vissuto.

La trasmissione della fede è avvenuta per due millenni in stretta collaborazione tra la famiglia e la Chiesa. Senza l’aiuto della famiglia, la Chiesa può fare poco. In un contesto sociale e culturale ormai scristianizzato, le nuove generazioni rischiano seriamente di crescere senza valori, perché non li hanno conosciuti.

A noi genitori spetta, quindi, una grande responsabilità. La nascita di un figlio trasforma l’esistenza del padre e della madre, invadendoli di una grande gioia, ma caricandoli anche, di doveri ben precisi. Perché questa paternità e maternità non diventino, però, un peso è necessario viverle nella prospettiva di una missione dove amare i figli come Dio li ama, seguendoli e accompagnandoli come Lui li segue; significa condividere con il Signore questa opera stupenda, aiutandoli a portare alla maturazione le loro enormi potenzialità e la loro vera vocazione. I figli hanno nei loro genitori il punto di riferimento ed il modello a cui ispirarsi.



Attenzione affettiva e morale



Oltre all’attenzione e formazione intellettuale e fisica, alle quali siamo tutti molto attenti e rigorosi, bisogna affiancare quella affettiva e morale.  Ricevere e donare amore, significa prepararli ad affrontare positivamente le vicende della vita; pena una fragilità psicologica e morale, di tragica attualità nella cronaca quotidiana.

Educare alla libera volontà significa, quindi, abituarli alla disciplina, all’applicazione ed alla rinuncia, per arrivare ad un bene più grande.

Tutti noi vorremmo avere la certezza che i nostri sforzi educativi producano dei frutti. Gesù, nella parabola del buon seminatore, ci ricorda però che, nonostante tutto il nostro impegno, il seme dei buoni insegnamenti non sempre viene accolto nel terreno dei figli.

Questo non ci deve scoraggiare perché, anche nell’insuccesso momentaneo, il bene rimane e può manifestarsi nei tempi e nei modi che il Signore vorrà. Orientare i figli al bene significa aiutarli a diventare persone buone, corrette ed oneste, guidati dalla coscienza, che è la voce di Dio nel cuore dell’uomo, nel praticare la giustizia e l’amore ed a fare opera di discernimento fra il bene e il male.

I bambini crescono bene se il contesto familiare è ricco di valori; il primo insegnamento è quindi l’esempio. I nostri figli ci osservano e ci ascoltano sempre, con grande attenzione, fin dai primi anni di vita, ed è perciò, attraverso il nostro amore di coppia, che possiamo alimentare la fiducia nel matrimonio e nella famiglia.

Succede, alle volte, che siano i nostri figli a costringerci a scuotere la polvere di dosso ed a uscire dalla mediocrità in cui ci siamo adagiati, stimolandoci con domande e riflessioni alle quali siamo in dovere di rispondere, anche con una buona dose di umiltà, ritrovando insieme il vero senso della vita che Dio ci ha donato. Parlare ai figli di Dio è un compito fondamentale dei genitori, partendo dalle bellezze del creato, per arrivare al loro cuore. La scoperta di Dio dentro di sé e l’apertura della porta ad un amico fedele che non li abbandonerà mai, è quanto di più bello possano regalare i genitori ai loro figli.



Nel cammino di fede non dobbiamo nascondere ai nostri figli che la via del bene, come ci ha insegnato Gesù stesso, a prima vista sembra la più difficile, perché è stretta ed in salita e richiede un po’ di sacrificio, ma in compenso è l’unica via che fa di noi delle persone buone e giuste e ci fa sentire tanta gioia e pace nel cuore.

Per questo vale la pena metterci in gioco, tutti insieme, Chiesa, genitori e figli, ricordando sempre il detto latino: “Le parole insegnano, gli esempi trascinano”.



La pastorale familiare ha un compito importante: quello di costruire nelle parrocchie una comunità di adulti. Senza le coppie adulte e giovani che si radunano e che si "vedono" presenti in quanto famiglie, la parrocchia si configura come un insieme di servizi erogati da un gruppo di persone.

quasi una stazione di servizio da autostrada, un aggregato da cui non nasce appartenenza e senso di familiarità.

Non sarà facile, ci vorrà tanta buona volontà e pazienza, costanza e fiducia: le parrocchie sono chiamate in prima linea a lavorare sodo coinvolgendo le famiglie, gli operatori di catechesi. Al bando lo scoraggiamento, c’è una Chiesa da ringiovanire, renderla più presente e attiva in un mondo che vediamo sempre meno cristiano e poco presente”.



Cosa fare allora, da dove incominciare?

Dare una risposta non è facile, non c’è una soluzione valida per tutti. In molte parrocchie dove si è tentato un approccio con le famiglie la delusione è stata grande a causa della quasi totale assenza dei genitori. Alla delusione è seguito lo scoraggiamento e il” lasciamo perdere”.

Se proviamo a dar un metodo, possiamo al giorno d’oggi dare soltanto una regola: pazienza e costanza.

Con umiltà dobbiamo ammettere come Chiesa che si è perso molto tempo, sono state trascurate le persone, è prevalso un certo autoritarismo, una volontà del potere e una sottomissione dei fedeli senza diritto di parola; l’entusiasmo del Concilio Ecumenico Vaticano secondo è durato molto poco.

E’ difficile oggi superare secoli di lassismo nella pastorale ma non impossibile: ci vuole sempre qualcuno che rompa il ghiaccio, che incominci con tutta serietà e abnegazione. Forse non vedremo i frutti nell’immediato, ma saremo i pionieri del Signore in quest’opera di rinascita della Chiesa.


Dobbiamo capire assieme ai nostri collaboratori, colleghi, e genitori che

L’istituzione familiare mantiene la sua responsabilità primaria per l’educazione e la trasmissione dei valori e della fede. Se è vero che la famiglia non è la sola educatrice, soprattutto quando si tratta di figli adolescenti, e che non esistono genitori perfetti, dobbiamo dire anche con chiarezza che c’è un’impronta che solo la famiglia può dare e che rimane nel tempo, pur attraverso fasi di latenza e crisi ambientali.

Per questo, occorre impegnarsi a sostenere il ruolo ed il compito dei genitori come educatori in tutti gli ambiti, compreso quello spirituale e cristiano. In forza del diritto naturale e dell’impegno assunto nel Battesimo dei loro figli, essi sono, infatti, i primi ed indispensabili educatori alla fede e alla vita cristiana” (Ed. alla vita buona del vangelo, 8).

Convinciamo i genitori a lavorare assieme a noi per

• seguire con continuità il cam­mino dei figli, partecipando alle diverse fasi del loro percorso catechistico;

• non ritirarsi ai margini affidan­do e delegando tutto alle catechiste e al parroco;

• ritagliarsi, in famiglia, alcuni momenti nei quali riprendere e far di­ventare «vita di ogni giorno» i contenuti che i bambini apprendono a catechismo;

• partecipare ad alcune iniziative e incontri in parrocchia per diventare capaci di «accompagnare» i figli nel cam­mino di fede;

• inserirsi nella vita della comu­nità parrocchiale, specialmente parteci­pando con i figli alla Messa domenicale;

• creare, all'interno della fami­glia, un clima nel quale la fede si respi­ra e si vive.

  Oggi fino a che punto possiamo dire che i genitori sono ancora capaci di trasmettere la loro fede ai figli?


“ Oggi, molti genitori vivono un senso di impotenza educativa; hanno l’impressione di non riuscire a comunicare e che altri soggetti abbiano mezzi più potenti e un’efficacia superiore; sentono di non saper più dire dei no con l’autorevolezza necessaria; fanno fatica a proporre con passione ragioni profonde per vivere. La fragilità della famiglia non deriva solo da motivi interni alla vita della coppia e al rapporto tra genitori e figli. Molto più pesanti e condizionanti sono i motivi esterni: conciliare l’impegno lavorativo con la vita familiare, costruire rapporti sereni in condizioni abitative e urbanistiche sfavorevoli, gestire il problema degli anziani malati e fragili. A ciò si aggiunga il numero crescente delle convivenze di fatto, delle separazioni coniugali e dei divorzi, come pure le difficoltà di un quadro economico, fiscale e sociale che disincentiva le nuove maternità” ( Ed.alla vita buona del vangelo, 8).

Inoltre tutti questi fattori sono serviti all’allontanamento da parte di molti genitori dalle pratiche religiose e di conseguenza da una seria e convinta coscienza religiosa.

“La chiesa deve aiutare le famiglie a diventare come “chiese domestiche” attraverso specifici itinerari di spiritualità. Le famiglie cristiane debbono, a loro volta aiutare la parrocchia a diventare “famiglie di famiglie” (ibidem).

Educare alla vita buona del vangelo deve diventare un crescere insieme e far crescere insieme la nostra piccola chiesa locale, la parrocchia, che unita alle altre parrocchie sotto la guida del Vescovo collabora alla crescita della Chiesa universale.

mercoledì 8 maggio 2013

I ragazzi crescono assieme a noi


Propongo un articolo di Anna Maria Bastianini, in cui si parla del rapporto da tenere con i ragazzi in modo che la loro crescita vada affiancata alla scoperta degli altri: i ragazzi devono crescere insieme, i genitori e il catechista facendosi uno di loro crescono insieme, dando testimonianza della propria vita umana e cristiana.








Da “I RAGAZZI CRESCONO INSIEME A NOI”
 di Anna Maria Bastianini ( ELLEDICI)

Lo abbiamo sperimentato tante volte: la tecnica, il programma, le attività, i contenuti da soli non bastano a garantire il successo di un’iniziativa, né la costante presenza e partecipazione dei bambini. È l’incontro con la persona dell’educatore a dare ai bambini la possibilità di crescere essi stessi come persona. Proviamo a soffermarci su questa affermazione per capirla meglio, esplicitandone alcuni aspetti. 






I ragazzi ci osservano

Ce lo dicevano già i nostri nonni: per i ragazzi è l’esempio che conta, non tanto ciò che si predica o ciò che si ordina. La saggezza popolare richiama una caratteristica importante del crescere umano che avviene attraverso l’identificazione con l’altro, cioè assimilando e interiorizzando atteggiamenti, modi di pensare e di fare, propri degli adulti che sono significativi per ognuno di noi. È per questo che non possiamo illuderci che i nostri bambini e i nostri ragazzi risolvano problemi che non abbiamo risolto noi o vivano con serietà l’esperienza della costruzione di sé, dell’incontro con gli altri, del rapporto con Dio se noi stessi non siamo appassionatamente e continuamente all’opera in questa direzione.  

"Parlarsi" è più importante del "fare"

Nei confronti dei ragazzi non conta solo un fare pensato per loro e per ognuno di loro (attività, programmi, contenuti, ecc), ma soprattutto una permanente disponibilità a parlarsi, a pensare insieme ai ragazzi riflettendo sul senso delle situazioni, delle cose che si fanno, a fare richieste coerenti con i valori in cui crediamo e che stiamo cercando di trasmettere loro. "È stato importante per noi, fin dal primo momento", dice un’animatrice con molti anni di esperienza, "l’impegno a costruire insieme le regole del gruppo, esplicitandone e discutendone con loro il significato. E poi fermarsi a chiarire, a riflettere con ognuno di loro ogniqualvolta emergevano delle difficoltà. Così pian piano si costruisce un gruppo, in cui ci si vuole davvero bene, non perché va sempre tutto bene, ma perché si diventa capaci di affrontare le difficoltà e i contrasti e di aiutarsi in questo vicendevolmente". 

Stimolare le personalità dei ragazzi

In un tempo in cui tutti siamo saturi di cose da fare, prigionieri dei ritmi invivibili della vita di ogni giorno, è importante non dimenticare che è compito di ogni adulto che abbia responsabilità educative il sostenere nei bambini e nei ragazzi la capacità di pensare. Il pensare garantisce il riconoscimento di emozioni, bisogni e desideri - quelli personali e quelli degli altri - che permettano di "stare bene con se stessi e stare bene con gli altri" (Adler). Può essere più scomodo, ma è certo più affascinante avere a che fare con tante personcine pensanti, perché in grado di esercitare un pensiero critico, a volte provocatorio. La disponibilità a mettersi in discussione conduce a essere noi stessi pensanti, capaci di mantenere vivo e funzionante un nostro laboratorio interno. I bambini non pretendono che sia in ordine perfetto. Anzi. Ci chiedono soltanto che sia sempre aperto, pronto ad accogliere emozioni, sofferenze, gioie, problemi e a riformularli per loro e insieme a loro.
  
E se loro non sembrano capire e reagire?

Diceva una mamma delusa dal comportamento "egoistico" dei suoi bambini: "Io e mio marito siamo permanentemente al loro servizio, sono loro al primo posto per noi, facciamo ogni cosa con l’intenzione che vada bene per loro… Ma loro non imparano a fare altrettanto. Si fanno servire, ma mai che uno si alzi spontaneamente a togliere un piatto da tavola e per farsi aiutare bisogna reggere lamentele, sbuffi… e poi sembrano cose fatte tanto per farle. Eppure ci vedono tutti i giorni cercare di fare le cose bene per loro".



È facile oggi essere portati a pensare, come questa mamma, che sia sufficiente voler bene ai bambini perché essi stessi imparino a volere bene. "È un bimbo molto amato, saprà amare", si dice. È vero: l’aver sperimentato rapporti affettivi con figure adulte che garantiscono cura, calore, sicurezza, è condizione di base per la crescita psicologica. L’evolversi di questi rapporti è tuttavia decisivo per la maturazione affettiva: la capacità innata a riconoscere l’altro e a entrare in relazione, maturando il piacere della reciprocità e dello scambio in tutte le età della vita, non si sviluppa se non è coltivata e salvaguardata nella relazione con gli adulti prima in famiglia e poi fuori.

Fargli scoprire l’altro

Mentre si struttura l’identità - "io sono io" - si dovrebbe costruire al contempo il riconoscimento dell’altro che permette di conquistarsi quel "non ci sono solo io" che diventa interesse e curiosità per l’altro riconosciuto diverso da sé, attenzione ad affermare il proprio "territorio" sperimentando la possibilità di regolare i rapporti con gli altri attraverso un sano utilizzo dell’aggressività, senza invadere o essere invasi; il piacere di condividere, di collaborare, di muoversi nel mondo, liberati dalla continua attenzione a se stessi, a "essere i migliori", "i più intelligenti", imparando a esserci, semplicemente, nel confronto con la realtà e con gli altri. 

Tocca all’adulto creare le condizioni

Tocca all’adulto favorire e sostenere la graduale capacità di "decentramento" del bambino, cioè la possibilità di riconoscere punti di vista, emozioni, opinioni, modi di fare esperienza, esigenze che sono diverse dai propri. È ancora l’adulto tenuto a garantire, attraverso le regole condivise, condizioni di confronto e di collaborazione in cui ognuno trovi il suo spazio in armonia con quello degli altri al di là di una logica meramente competitiva.



Sotto questo profilo non solo le regole sono importanti, ma anche la capacità di fare ai bambini richieste e proposte che sono importanti per abituarli a interrompere ogni tanto l’attenzione su di sé, sui propri pensieri, bisogni ed emozioni per dare un contributo alle esigenze della comunità, sperimentando il proprio valore, non perché è "il più bravo", ma perché anche lui, nel suo ruolo di bambino, può "essere utile".