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domenica 29 dicembre 2013

Il vero discepolo di Cristo ha condiscepoli e si fa condiscepolo.

L'essere discepolo....



DISCEPOLI   O  CONDISCEPOLI?



La domanda sembra anche stavolta retorica. Eppure rimanda ad una alternativa non
del tutto rara nel pensiero e nell’esperienza di tanti credenti. Fin troppo facile è cedere ad un
senso solitario, individualistico dell’essere cristiani, salvo poi accostarvi un po’
estrinsecamente l’appartenenza alla Chiesa, come una sorta di condizione successiva
all’essere diventati cristiani, una specie di iscrizione facoltativa ad un club, ad una congrega di
elezione o, meglio, secondo gradimento. La verità è che un discepolo di Gesù è veramente tale
se nasce al discepolato con altri, se vive e cammina con altri discepoli. Il vero discepolo di
Cristo ha condiscepoli e si fa condiscepolo.

L’esperienza paolina è significativa in tal senso. Ciò che capita a Paolo è esemplare per
tutti noi. Infatti, secondo il racconto del libro degli Atti, è il Signore stesso a invitare, inviare e
condurre Paolo verso la comunità cristiana già esistente (cf. At 9,6; 22,10). Come a dire che
non c’è iniziativa dall’alto senza incontro terreno; non può esserci incontro con il Signore, o
meglio del Signore con noi, che non conduca prontamente e necessariamente all’incontro
fraterno – nel senso della fraternità della fede – fra di noi.

Proprio vero che giungere alla fede ed entrare a far parte della Chiesa sono quasi la stessa cosa, si appartengono l’un l’altro.
La comunità cristiana non è esteriore alla relazione personale con Dio instaurata nella fede. La
Chiesa appartiene alla struttura costitutiva della nostra fede tanto quanto la nostra fede ci
inserisce, ci rende appartenenti alla Chiesa.

Questo legame di reciprocità non è una figura astratta, una entità immaginaria; al
contrario si incarna in volti concreti, in rapporti reali. Il Signore che chiama Paolo, interpella
nello stesso tempo Anania. Il Signore precede Paolo nell’incontro con Anania e prepara
quest’ultimo a incontrare Paolo, che ha riempito della luce della sua rivelazione.

Il rinvio alla Chiesa, alla comunità cristiana con i suoi volti e le sue figure concrete, è una sorta di
controprova che la chiamata viene veramente da Dio, e non è una fatua emozione interiore.
Perché quando il Signore chiama lo fa anticipando i nostri passi e preparando i nostri incontri.
Le figure che sono riferimento nella comunità cristiana svolgono diverse funzioni in
relazione al cammino del nuovo discepolo: sottopongono ad un discernimento, aiutano a
leggere la volontà di Dio su di lui, preparano, sostengono e accompagnano con la preghiera,
ammettono alla vita della Chiesa con i sacramenti, primo fra tutti il battesimo, seguono nei
primi passi dell’impegno ecclesiale e dell’azione missionaria, proteggono nei momenti difficili
(cf. At 9,10-30; 22,12-16), accreditano presso la comunità quando necessario, come fa
Barnaba per Paolo (cf. At 9,27-28).

Il cammino storico della fede cristiana ha conosciuto una evoluzione e una
articolazione delle forme in cui si è presentato il discepolo che accompagna, a cominciare dal
ministro ordinato che celebra i sacramenti e annuncia autorevolmente la Parola, a continuare
con quelli che affiancano in vario modo, soprattutto con quella figura designata variamente
come padre, guida, direttore, accompagnatore spirituale. Tutta esperienza di vita cristiana che
ci dice come abbiamo bisogno di un confronto costante con qualche fratello o sorella perché il
nostro sia davvero un cammino credente dietro a Gesù.

Sta qui uno dei sensi fondamentali della Chiesa nel suo insieme: strapparci al nostro
solipsismo, al nostro isolamento, alla pretesa autosufficienza, per aprirci e accogliere
veramente la chiamata e la presenza di Dio, la sua salvezza in Gesù, e imitarlo realizzando in
noi il movimento di uscita da se stessi per diventare noi stessi nell’atto di donarci per amore a
lui e ai fratelli. La fraternità nella Chiesa è un contrassegna formidabile e fondamentale della
autenticità della nostra fede e della qualità della nostra vita comune. Lasciarci aiutare e
dedicarci ad aiutare gli altri per incontrare personalmente e insieme il Signore che illumina,
salva, fa strada davanti a noi e invia dinanzi a sé: questa è la lezione permanente del
“condiscepolato” cristiano.

Mariano Crociata
Vescovo

sabato 28 dicembre 2013

Catechisti/e, non dite siamo lasciati soli…


Tutti insieme attingiamo dalla stessa fonte


E' questa una delle visioni agostiniane fatte proprie dal Concilio Ecumenico Vaticano II: il vescovo è prima di tutto un cristiano insieme agli altri cristiani. Egli non è superiore a nessuno, ha solo un compito, fra gli altri, all'interno del popolo di Dio. Ma il Maestro è uno solo, Cristo; il Padre è uno solo, il Padre del cielo. Il vescovo ha bisogno del sostegno e della preghiera dei fratelli; e quello che è chiamato a dispensare agli altri, quale buon amministratore della casa di Dio, il vescovo lo succhia a sua volta dalla Parola rivolta a tutto il popolo.
Frasi meravigliose di Sant’Agostino, vescovo d’Ippona:


Tutti i cristiani sono discepoli del Cristo.
Infatti uno solo è il vostro Maestro, Cristo (Mt 23,10).
Negherà di essere discepolo di Cristo solo colui che negherà che Cristo è il suo Maestro.
Non dunque per il fatto che vi parlo da un luogo posto più in alto, io sono vostro maestro.
E’ infatti il maestro di tutti, colui la cui cattedra è al di sopra di tutti i cieli


SOTTO DI LUI SIAMO RIUNITI IN UNA SOLA SCUOLA E VOI E NOI SIAMO CONDISCEPOLI.


Il nostro ruolo è solo di ammonirvi, come i capiclasse nelle scuole.
Rialzate dunque, fratelli, rialzate il nostro fardello e portatelo con me: vivete bene.
Io oggi devo dar da mangiare ai poveri che sono poveri con me.
Con loro devo comunicare la mia umanità.
Le mie parole sono il vostro pranzo.
Non riesco a pascervi tutti con un pane che si può vedere e toccare.



NUTRISCO CON QUELLO DA CUI SONO NUTRITO; SONO SERVITORE, NON IL PADRE DI FAMIGLIA.


- Metto davanti a voi ciò di cui io stesso vivo, dal tesoro del Signore, dalla mensa di quel padre di famiglia che per noi si è fatto povero, essendo ricco, perché noi fossimo ricchi della sua povertà.

- Se vi dessi un pane, spezzato il pane portereste via ognuno un piccolo pezzo; e se foste molti, ognuno ne porterebbe via un pezzo molto piccolo.

- Adesso invece quello che dico ce l'avete tutto tutti, e ognuno ce l'ha tutto.

- Forse dividete fra voi le sillabe del mio parlare? Forse che portate via le parole che compongono il sermone?

- Ma vedete anche che io sono uno che distribuisce, non l'esattore.

- Se non distribuissi e tenessi il denaro per me, il Vangelo mi atterrisce.

- Potrei dire, perché procurare del fastidio agli uomini? Ho ricevuto di chi vivere, vivrò come mi è stato chiesto e comandato di vivere.

Ma il Vangelo mi atterrisce.

- Infatti, se fosse per me, passerei la vita in questo riposo sicuro e senza alcun impegno: per me non c'è niente di meglio, di più dolce, che scrutare il tesoro del Signore senza nessuno che mi dia fastidio. Cosa dolce e buona.

- Invece predicare, correggere, rimproverare, edificare, darsi da fare per ognuno, oh che peso grande, che fatica, che lavoro! Chi non rifiuterebbe questa fatica?

Mi atterrisce il Vangelo.

- Infatti arriva il servo che ha messo da parte il talento e dice: so che sei un uomo molesto che vuoi mietere dove non hai seminato, ecco il tuo talento che ho conservato. Ma il padrone lo giudica e gli dice: avresti almeno potuto dare il mio denaro a chi l'avesse fatto fruttificare e io venendo lo avrei ritirato con gli interessi.

- Ti avevo posto come dispensatore, non come esattore.

Questo è esattamente il mio dare: chi era cattivo ieri, sia buono oggi.

venerdì 4 ottobre 2013

IL CATECHISTA E' LA MEMORIA DI DIO...





OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Piazza San Pietro
Domenica, 29 settembre 2013

Il catechista allora è un cristiano che porta in sé la memoria di Dio, si lascia guidare dalla memoria di Dio in tutta la sua vita, e la sa risvegliare nel cuore degli altri





1. «Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri, … distesi su letti d’avorio» (Am 6,1.4), mangiano, bevono, cantano, si divertono e non si curano dei problemi degli altri.

Parole dure queste del profeta Amos, ma che ci mettono in guardia da un pericolo che tutti corriamo. Che cosa denuncia questo messaggero di Dio, che cosa mette davanti agli occhi dei suoi contemporanei e anche davanti ai nostri occhi oggi? Il rischio di adagiarsi, della comodità, della mondanità nella vita e nel cuore, di avere come centro il nostro benessere. E’ la stessa esperienza del ricco del Vangelo, che indossava vestiti di lusso e ogni giorno si dava ad abbondanti banchetti; questo era importante per lui. E il povero che era alla sua porta e non aveva di che sfamarsi? Non era affare suo, non lo riguardava. Se le cose, il denaro, la mondanità diventano centro della vita ci afferrano, ci possiedono e noi perdiamo la nostra stessa identità di uomini: guardate bene, il ricco del Vangelo non ha nome, è semplicemente “un ricco”. Le cose, ciò che possiede sono il suo volto, non ne ha altri.

Ma proviamo a domandarci: come mai succede questo? Come mai gli uomini, forse anche noi, cadiamo nel pericolo di chiuderci, di mettere la nostra sicurezza nelle cose, che alla fine ci rubano il volto, il nostro volto umano? Questo succede quando perdiamo la memoria di Dio. “Guai agli spensierati di Sion”, diceva il profeta. Se manca la memoria di Dio, tutto si appiattisce, tutto va sull’io, sul mio benessere. La vita, il mondo, gli altri, perdono la consistenza, non contano più nulla, tutto si riduce a una sola dimensione: l’avere. Se perdiamo la memoria di Dio, anche noi stessi perdiamo consistenza, anche noi ci svuotiamo, perdiamo il nostro volto come il ricco del Vangelo! Chi corre dietro al nulla diventa lui stesso nullità – dice un altro grande profeta, Geremia (cfr Ger 2,5). Noi siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio, non a immagine e somiglianza delle cose, degli idoli! 

2. Allora, guardandovi, mi chiedo: chi è il catechista? E’ colui che custodisce e alimenta la memoria di Dio; la custodisce in se stesso e la sa risvegliare negli altri. E’ bello questo: fare memoria di Dio, come la Vergine Maria che, davanti all’azione meravigliosa di Dio nella sua vita, non pensa all’onore, al prestigio, alle ricchezze, non si chiude in se stessa. Al contrario, dopo aver accolto l’annuncio dell’Angelo e aver concepito il Figlio di Dio, che cosa fa? Parte, va dall’anziana parente Elisabetta, anch’essa incinta, per aiutarla; e nell’incontro con lei il suo primo atto è la memoria dell’agire di Dio, della fedeltà di Dio nella sua vita, nella storia del suo popolo, nella nostra storia: «L’anima mia magnifica il Signore … perché ha guardato l’umiltà della sua serva … di generazione in generazione la sua misericordia» (Lc 1,46.48.50). Maria ha memoria di Dio.

In questo cantico di Maria c’è anche la memoria della sua storia personale, la storia di Dio con lei, la sua stessa esperienza di fede. Ed è così per ognuno di noi, per ogni cristiano: la fede contiene proprio la memoria della storia di Dio con noi, la memoria dell’incontro con Dio che si muove per primo, che crea e salva, che ci trasforma; la fede è memoria della sua Parola che scalda il cuore, delle sue azioni di salvezza con cui ci dona vita, ci purifica, ci cura, ci nutre. Il catechista è proprio un cristiano che mette questa memoria al servizio dell’annuncio; non per farsi vedere, non per parlare di sé, ma per parlare di Dio, del suo amore, della sua fedeltà. Parlare e trasmettere tutto quello che Dio ha rivelato, cioè la dottrina nella sua totalità, senza tagliare né aggiungere.

San Paolo raccomanda al suo discepolo e collaboratore Timoteo soprattutto una cosa: Ricordati, ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, che io annuncio e per il quale soffro (cfr 2 Tm 2,8-9). Ma l’Apostolo può dire questo perché lui per primo si è ricordato di Cristo, che lo ha chiamato quando era persecutore dei cristiani, lo ha toccato e trasformato con la sua Grazia.

Il catechista allora è un cristiano che porta in sé la memoria di Dio, si lascia guidare dalla memoria di Dio in tutta la sua vita, e la sa risvegliare nel cuore degli altri. E’ impegnativo questo! Impegna tutta la vita! Lo stesso Catechismo che cos’è se non memoria di Dio, memoria della sua azione nella storia, del suo essersi fatto vicino a noi in Cristo, presente nella sua Parola, nei Sacramenti, nella sua Chiesa, nel suo amore? Cari catechisti, vi domando: siamo noi memoria di Dio? Siamo veramente come sentinelle che risvegliano negli altri la memoria di Dio, che scalda il cuore?

3. «Guai agli spensierati di Sion», dice il profeta. Quale strada percorrere per non essere persone “spensierate”, che pongono la loro sicurezza in se stessi e nelle cose, ma uomini e donne della memoria di Dio? Nella seconda Lettura san Paolo, scrivendo sempre a Timoteo, dà alcune indicazioni che possono segnare anche il cammino del catechista, il nostro cammino: tendere alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza (cfr 1 Tm 6,11).

Il catechista è uomo della memoria di Dio se ha un costante, vitale rapporto con Lui e con il prossimo; se è uomo di fede, che si fida veramente di Dio e pone in Lui la sua sicurezza; se è uomo di carità, di amore, che vede tutti come fratelli; se è uomo di “hypomoné”, di pazienza, di perseveranza, che sa affrontare le difficoltà, le prove, gli insuccessi, con serenità e speranza nel Signore; se è uomo mite, capace di comprensione e di misericordia. 

Preghiamo il Signore perché siamo tutti uomini e donne che custodiscono e alimentano la memoria di Dio nella propria vita e la sanno risvegliare nel cuore degli altri. Amen.


 
 Il catechista è uomo della memoria di Dio se ha un costante, vitale rapporto con Lui e con il prossimo.

giovedì 3 ottobre 2013

Non ho detto "fare" i catechisti, ma "esserlo"


Papa Francesco ai catechisti al congresso dei catechisti a Roma







 Cari catechisti,

sono felice che nell’Anno della fede ci sia questo incontro per voi: la catechesi è un pilastro per l’educazione della fede, e ci vogliono buoni catechisti! Grazie di questo servizio alla Chiesa e nella Chiesa. Anche se a volte può essere difficile, si lavora tanto, ci si impegna e non si vedono i risultati voluti, educare nella fede è bello! Aiutare i bambini, i ragazzi, i giovani, gli adulti a conoscere e ad amare sempre di più il Signore è una delle avventure educative più belle, si costruisce la Chiesa! “Essere” catechisti! Badate bene, non ho detto “fare” i catechisti, ma “esserlo”, perché coinvolge la vita. Si guida all’incontro con Gesù con le parole e con la vita, con la testimonianza. Ed “essere” catechisti chiede amore, amore sempre più forte a Cristo, amore al suo popolo santo. E questo amore, necessariamente, parte da Cristo.

Che cosa significa questo ripartire da Cristo per un catechista, per voi, anche per me, perché anch’io sono catechista?

1. Prima di tutto ripartire da Cristo significa avere familiarità con Lui. Gesù lo raccomanda con insistenza ai discepoli nell’Ultima Cena, quando si avvia a vivere il dono più alto di amore, il sacrificio della Croce. Gesù utilizza l’immagine della vite e dei tralci e dice: rimanete nel mio amore, rimanete attaccati a me, come il tralcio è attaccato alla vite. Se siamo uniti a Lui possiamo portare frutto, e questa è la familiarità con Cristo.

La prima cosa, per un discepolo, è stare con il Maestro, ascoltarlo, imparare da Lui. E questo vale sempre, è un cammino che dura tutta la vita! Per me, ad esempio, è molto importante rimanere davanti al Tabernacolo; è uno stare alla presenza del Signore, lasciarsi guardare da Lui.




E questo scalda il cuore, tiene acceso il fuoco dell’amicizia, ti fa sentire che Lui veramente ti guarda, ti è vicino e ti vuole bene. Capisco che per voi non è così semplice: specialmente per chi è sposato e ha figli, è difficile trovare un tempo lungo di calma. Ma, grazie a Dio, non è necessario fare tutti nello stesso modo; nella Chiesa c’è varietà di vocazioni e varietà di forme spirituali; l’importante è trovare il modo adatto per stare con il Signore; e questo si può, è possibile in ogni stato di vita. In questo momento ognuno può domandarsi: come vivo io questo “stare” con Gesù? Ho dei momenti in cui rimango alla sua presenza, in silenzio, mi lascio guardare da Lui? Lascio che il suo fuoco riscaldi il mio cuore? Se nel nostro cuore non c’è il calore di Dio, del suo amore, della sua tenerezza, come possiamo noi, poveri peccatori, riscaldare i cuori degli altri?

2. Il secondo elemento è questo: ripartire da Cristo significa imitarlo nell’uscire da sé e andare incontro all’altro. Questa è un’esperienza bella, e un po’ paradossale. Perché? Perché chi mette al centro della propria vita Cristo si decentra! Più ti unisci a Gesù e Lui diventa il centro della tua vita, più Lui ti fa uscire da te stesso, ti decentra e ti apre agli altri. Questo è il vero dinamismo dell’amore, questo è il movimento di Dio stesso!



Dio è il centro, ma è sempre dono di sé, relazione, vita che si comunica… Così diventiamo anche noi se rimaniamo uniti a Cristo, Lui ci fa entrare in questo dinamismo dell’amore. Dove c’è vera vita in Cristo, c’è apertura all’altro, c’è uscita da sé per andare incontro all’altro nel nome di Cristo.

Il cuore del catechista vive sempre questo movimento di “sistole - diastole”: unione con Gesù - incontro con l’altro. Sistole - diastole. Se manca uno di questi due movimenti non batte più, non vive. Riceve in dono il kerigma, e a sua volta lo offre in dono. E’ così nella natura stessa del kerigma: è un dono che genera missione, che spinge sempre oltre se stessi. San Paolo diceva: «L’amore di Cristo ci spinge», ma quel “ci spinge” si può tradurre anche “ci possiede”. E’ così: l’amore ti attira e ti invia, ti prende e ti dona agli altri. In questa tensione si muove il cuore del cristiano, in particolare il cuore del catechista. Chiediamoci tutti: è così che batte il mio cuore di catechista: unione con Gesù e incontro con l’altro? Si alimenta nel rapporto con Lui, ma per portarlo agli altri? Vi dico una cosa: non capisco come un catechista possa rimanere fermo, senza questo movimento.


3. E il terzo elemento sta sempre in questa linea: ripartire da Cristo significa non aver paura di andare con Lui nelle periferie. Qui mi viene in mente la storia di Giona, una figura davvero interessante, specialmente nei nostri tempi di cambiamenti e di incertezza. Giona è un uomo pio, con una vita tranquilla e ordinata; questo lo porta ad avere i suoi schemi ben chiari e a giudicare tutto e tutti con questi schemi, in modo rigido. Perciò quando il Signore lo chiama e gli dice di andare a predicare a Ninive, la grande città pagana, Giona non se la sente. Ninive è al di fuori dei suoi schemi, è alla periferia del suo mondo. E allora scappa, fugge via, si imbarca su una nave che va lontano. Andate a rileggere il Libro di Giona! E’ breve, ma è una parabola molto istruttiva, specialmente per noi che siamo nella Chiesa.



Che cosa ci insegna? Ci insegna a non aver paura di uscire dai nostri schemi per seguire Dio, perché Dio va sempre oltre, Dio non ha paura delle periferie. Dio è sempre fedele, è creativo, non è chiuso, e per questo non è mai rigido, ci accoglie, ci viene incontro, ci comprende. Per essere fedeli, per essere creativi, bisogna saper cambiare. Per rimanere con Dio bisogna saper uscire, non aver paura di uscire. Se un catechista si lascia prendere dalla paura, è un codardo; se un catechista se ne sta tranquillo finisce per essere una statua da museo; se un catechista è rigido diventa incartapecorito e sterile. Vi domando: qualcuno di voi vuole essere codardo, statua da museo o sterile?

Ma attenzione! Gesù non dice: andate, arrangiatevi. No! Gesù dice: Andate, io sono con voi!

Questa è la nostra bellezza e la nostra forza: se noi andiamo, se noi usciamo a portare il suo Vangelo con amore, con vero spirito apostolico, con parusia, Lui cammina con noi, ci precede, ci “premierà” sempre. Ormai avete imparato il senso di questa parola. E questo è fondamentale per noi: Dio sempre ci precede! Quando noi pensiamo di andare lontano, in una estrema periferia, e forse abbiamo un po’ di timore, in realtà Lui è già là: Gesù ci aspetta nel cuore di quel fratello, nella sua carne ferita, nella sua vita oppressa, nella sua anima senza fede. Gesù è lì, in quel fratello. Lui sempre ci precede.

Cari catechisti, vi dico grazie per quello che fate, ma soprattutto perché ci siete nella Chiesa, nel Popolo di Dio in cammino. Rimaniamo con Cristo, cerchiamo di essere sempre più una cosa sola con Lui; seguiamolo, imitiamolo nel suo movimento d’amore, nel suo andare incontro all’uomo; e usciamo, apriamo le porte, abbiamo l’audacia di tracciare strade nuove per l’annuncio del Vangelo.

Il Signore vi benedica e la Madonna vi accompagni.




domenica 15 settembre 2013

Catechesi: relazionare per crescere insieme



        RELAZIONARE NELLA PARROCCHIA




Cristiani si diventa, non si nasce.

Cercare un itinerario condiviso in cui “educatori ed educandi” intrecciano un’esperienza umana e spirituale profonda e coinvolgente


In ogni parrocchia ci sono delle persone volenterose che prestano la loro opera e si mettono al servizio delle necessità della comunità cristiana.



Possiamo descrivere chi sono queste persone, o meglio elencare i gruppi  di cui fanno parte:

- Consiglio pastorale: laici che affiancano il parroco nella preparazione delle attività parrocchiali;

- Catechisti: operatori di catechesi (catechismo) che di solito si dedicano all’insegnamento delle prime verità cristiane, rivolto a bambini e ragazzi. Questo per prepararli a ricevere i sacramenti, prima comunione e cresima.

- Gruppi vari: azione cattolica, gruppi sposi, gruppo biblico, scouts, caritas, ministri dell’eucaristia, gruppo liturgico, gruppo del decoro della chiesa , redazione del giornalino parrocchiale etc.


Le domande che ci facciamo sono:

Come relazionano, se lo fanno, tra di loro tutte queste persone o gruppi?

C’è qualcosa che li unisce, che fanno insieme, per esempio pregano ogni tanto insieme? Mettono in comune le loro esperienze onde migliorare il loro lavoro? Come incidono nella vita parrocchiale, sono capaci di entusiasmare gli altri , attirarli ad una migliore partecipazione e scelta di vita? Sono capaci di stare insieme e fare festa? Credono di essere arrivati e di non avere bisogno di ulteriore formazione? Partendo dal presupposto che un cristiano veramente tale è formato non quando ha imparato una certa quantità di contenuti di fede, ma quando ha assimilato le verità cristiane; una volta fatto ciò le trasforma in convinzioni radicate a livello personale e in atteggiamenti di vita coerenti e adeguati, in modo da essere un  testimone del Maestro Gesù.



Se questo è il presupposto per ogni cristiano, con maggior ragione lo deve essere per tutti coloro che hanno ricevuto una chiamata speciale dal Signore: essere operai della sua vigna, operai che aiutano in un modo o in un altro i fratelli.



“Cristiani si diventa, non si nasce. Questo notissimo detto di Tertulliano sottolinea la necessità della dimensione propriamente educativa (formazione) della vita cristiana. Si tratta di un itinerario condiviso, in cui educatori ed educandi intrecciano un’esperienza umana e spirituale profonda e coinvolgente”. ( Educare alla vita buona del Vangelo, 25)



La chiamata speciale ricevuta non ci mette al disopra degli altri, ma ci fa fratelli  che danno una mano ai fratelli minori che devono ancora fare una scelta libera di vita cristiana, ovvero fatta la loro scelta vogliamo che camminino insieme a noi.

Ecco allora che possiamo parlare di formazione cristiana seguendo l’esempio datoci da Gesù con la sua vita, azioni e parole quando per le vie della Palestina andava incontro alla sua gente. E da questo nessuno pensi di esentarsi perché siamo stati chiamati a generare assieme al Parroco figli di Dio, e perché chiamati diventiamo responsabili  della missione ricevuta: “A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà chiesto molto di più” (Lc 12,48).



In questa formazione tutti sono impegnati, dal parroco all’ultimo chiamato, in una stretta relazione di collaborazione e comunione.

Da questo punto di vista nella parrocchia, proprio perché “casa di tutti”, il parroco che è il responsabile principale, non può pensare di proporre una formazione standard che vada bene per tutti, né può accontentarsi di una formazione approssimativa, fonte di un cristianesimo qualunquista, ma in base ai compiti e alla preparazione di ognuno va curata una catechesi appropriata, in modo che tutti possano essere preparati per la missione ricevuta.



Anche i parroci rivedano la loro formazione pastorale in modo da essere “buon pastore” delle loro pecorelle..

Deve esistere la convinzione della bontà di questa formazione, desiderarla, sollecitarla a tutti i livelli, comunitario e personale: è il primo modo di relazionare e imparare a relazionarsi con i propri compagni di viaggio, nella riscoperta della propria fede, la spiritualità, il proprio contesto umano e professionale.



La maturità cristiana si può misurare secondo tre indicatori che devono essere compresenti:

           

1) la capacità di costruire e mantenere un forte legame con il Signore nella preghiera e nei sacramenti;

2) la capacità di amare se stesso e il prossimo;

3) la capacità di compiere scelte di vita definitive.



Ogni gruppo parrocchiale ha dei compiti da portare avanti: la formazione deve avere due finalità, se stessi e la parrocchia, parrocchia intesa qui come tutto il resto dei fedeli che devono venire a conoscenza dell’esistenza dei gruppi e di quello che fanno.

Per esempio un gruppo che si dedica all’approfondimento della bibbia farà partecipe la comunità di ciò che fa trasmettendo le proprie conquiste di conoscenza e di fede, magari con un volantino o organizzando dei forum parrocchiali, collaborando col gruppo liturgico.





I catechisti ai quali sono stati affidati dei bambini, dei ragazzi devono coinvolgere i genitori, assieme al parroco, mettendoli al corrente dei progressi dei ragazzi e organizzando dei momenti di formazione per loro, momenti di festa per conoscersi meglio e stare allegri nel Signore, collaborare con il gruppo biblico e con quello che si occupa della liturgia.

In sostanza ogni gruppo deve essere conosciuto dai parrocchiani e deve farsi conoscere per quello che fa con lo scopo di fare comunione  e in questa dare stimoli di entusiasmo, di crescita e magari di partecipazione e collaborazione.



Ogni gruppo non sia isolato nel suo lavoro: il mettere insieme con tutti gli altri la loro esperienza di fede in giornate di fraternità, che non siano soltanto giornate di riflessione e di preghiera ma anche di festa, aiutano ad aumentare la fratellanza, l’amicizia e la convivialità.

Spetterebbe al consiglio pastorale promuovere delle giornate di festa aperte a tutta la comunità parrocchiale  (due o tre volte l’anno), giornate in cui si fa festa, si mette al corrente la comunità dei programmi pastorali ,e si coglie l’occasione per un incontro di formazione e di preghiera. Celebrare una volta l’anno l’anniversario dei matrimoni come festa della famiglia.

Gli altri al vederci, come per i primi cristiani, possano esclamare: come si amano, come è bello stare insieme”



Catechesi come formazione di ogni collaboratore, chiamato dal Signore, in funzione di incontri con i fratelli della Parrocchia, vicini e lontani. Incontri in cui bisogna avere tanta capacità di ascolto per conoscere l’altro, occhi per vedere e studiare situazioni che normalmente ci sfuggono. Come  Gesù con la folla che lo seguiva:



“La folla segue Gesù mossa dalla speranza di ricevere qualcosa di decisivo. Pur provenendo da città e situazioni diverse, appare animata da un desiderio comune.

Gesù stesso si fa interprete delle attese profonde dei presenti. Lo sguardo che rivolge loro non è distaccato, ma partecipe, perché non scorge una folla anonima, bensì persone, di cui coglie il bisogno inespresso.



Gesù vede in loro «pecore che non hanno pastore»: è una metafora che rivela la situazione di un popolo che soffre per la mancanza di una guida autorevole o è disorientato da maestri inaffidabili.

Lo smarrimento della folla suscita in Gesù una “compassione”, che non è un’emozione superficiale,

ma è lo stesso sentire con cui Dio, nella vicenda dell’esodo, ha ascoltato il gemito del suo popolo

e se ne è preso cura con vigore e tenerezza.



Il bisogno delle persone interpella costantemente Gesù,

che risponde ogni volta manifestando l’amore compassionevole del Padre” (Educare alla vita buona del Vangelo cap.2.17).



Come Gesù quando insegnava con l’autorevolezza che viene dal Padre, dobbiamo proporre ciò che lui ci ha insegnato, essere testimoni della Parola come Gesù lo fu e continua ad esserlo del Padre:

La prima azione di Gesù è l’insegnamento: «si mise a insegnare loro molte cose».



“Gesù è cosciente di essere anzitutto il Maestro: per questo, con l’autorevolezza che viene dal Padre, comincia con l’indicare le vie della vita autentica. Egli rivela il mondo nuovo voluto da Dio e chiama a esserne parte, sollecitando ciascuno a cooperare alla sua edificazione nella pace. Il popolo che egli pasce è invitato ad ascoltare la sua parola, che conduce e fa riposare su pascoli erbosi (cfr Sal 23,2).

Gesù non smetterà di insegnare, parlando al cuore, neppure di fronte all’incomprensione della folla e dei suoi stessi discepoli”. (Educare alla vita buona del Vangelo cap.2.18)


Educare, convivere, stare, crescere insieme in un mondo che cambia

Il documento CEI parla di “opera educativa” in un mondo che cambia: conosciamo questo mondo che cambia? Conoscere, ricordiamo che significa entrare nell’anima dell’altro: non è la nostra intelligenza che ci fa conoscere l’altro ma il nostro cuore che ci farà ascoltare e parlare con intelligenza.




«Bisogna, infatti, conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico», che ci ha ricordato il Concilio Vaticano II, indicando pure il metodo: «Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche».  Tutto il popolo di Dio, dunque, con l’aiuto dello Spirito, ha il compito di esaminare ogni cosa e di tenere ciò che è buono (cfr 1Ts 5,21), riconoscendo i segni e i tempi dell’azione creatrice dello Spirito. Compiendo tale discernimento, la Chiesa si pone accanto a ogni uomo, condividendone gioie e speranze, tristezze e angosce e diventando così solidale con la storia del genere umano”. (Educare alla vita buona del Vangelo cap.1.7)



Si parla di “educare”, ma in realtà, come si è detto altrove in questo lavoro, si tratta di riuscire a viaggiare insieme, dare e ricevere amicizia per incontrare il Maestro,bando all’individualismo sia del singolo che del gruppo.

Si cercherà di relazionare, ogni gruppo nel suo ramo e tutti con la comunità parrocchiale in un programma che abbracci ogni età e situazione.






Relazionare infine, vuol dire essere comunità, piccola comunità nella comunità più grande, la Chiesa.




Per concludere ancora una paginetta che riporto dal libro  Spiritualità di comunione”, a cura di Juan Battista Cappellaro: “Perché ci sia una comunità non è necessario che tutte le persone siano mature. Ne è un esempio la famiglia.


-  Una comunità è matura quando:
ha integrato tutti i suoi membri, cioè ognuno ha e sa di avere il suo posto, il suo ruolo organico, senza sentirsi frustrato, ma anzi completato, potenziato dal ruolo altrui, come membra in un corpo anziché rivali (il “noi”). E ciascuno si fa responsabile dell’insieme, conscio del fine che si vuole raggiungere; è capace di assimilare nuovi membri sa assumere la realtà: accetta i membri quali sono, rispetta le differenze, i tempi e i ritmi di maturazione,ecc. Ha pertanto il senso della storicità; sopporta gli insuccessi, reagendo positivamente, e resiste alle tensioni senza dividersi; è consapevole dei suoi limiti ed è perciò continuamente impegnata nella propria conversione attraverso l’autocritica, la revisione e la correzione fraterna.


-  Una comunità è matura nella misura:
dell’oblatività dei suoi membri, che raggiunge il punto più elevato quando questi sanno mettere autenticamente insieme il loro destino;

dell’apertura agli altri; dell’oblatività e della ricettività, che confluiscono nella capacità di generare nuove comunità”.

-  Infine si raccomanda il dialogo, frutto di tutti i processi nella pastorale perché:
“ fa crescere armonicamente i membri della comunità;

permette la mutua conoscenza, frutto dell’amore;

accresce la fiducia reciproca, elemento fondamentale della vita comunitaria;

socializza e rende creativi, è cioè fonte di progresso e di costruzione;

orienta le tensioni, che sono normali in una comunità;

favorisce il superamento dei complessi personali e comunitari (timidezza, aggressività, autosufficienza) e dei contrasti.




 Il dialogo stesso ha raggiunto la sua maturità quando il dare e il ricevere toccano quella profondità dove l’uno e l’altro si confondono, divenendo mutua partecipazione, cioè quando ciò che è mio è tuo; ciò che tuo è mio”(idem).


venerdì 13 settembre 2013

la nostra parola diventa affascinante per gli altri quando noi stessi vi prendiamo piacere.



PREMESSE PER UNA NUOVA CATECHESI:la nostra parola affascinante.


Fratello, la nostra parola diventa affascinante per gli altri quando noi stessi vi prendiamo piacere.

Il dispiegarsi della nostra parola risente della nostra gioia... La difficoltà non è dunque di sapere ciò che bisogna insegnare agli altri, ciò che essi devono credere, da dove cominciare,dove finire... né di vedere quando bisogna abbreviare o quando bisogna prolungare l’istruzione.

No, la cosa importante è istruire nella gioia. Più tu vi riuscirai, più sarai ascoltato” (SANT’AGOSTINO).

E’ possibile un programma di catechesi uguale per tutti, per adulti, piccoli e giovani?

Se pensiamo che il messaggio è unico perché Dio è uno, un programma di catechesi deve essere unico ma adattato alle diverse età, ai diversi stati di vita, all’uomo nel suo essere e nel suo divenire storico. Importante, come abbiamo appena letto da Sant’Agostino, è istruire nella gioia, entusiasmare per giungere ad una scelta per Dio in verità e libertà.

In questo capitolo voglio dare delle linee generali per un programma di catechesi che ogni operatore di catechesi dovrebbe seguire, ma prima ancora fare suo, entusiasmarsi per entusiasmare, istruire nella gioia, viverlo e crescere insieme alle persone che gli sono state affidate.


“Nel corso dei secoli Dio ha educato il suo popolo, trasformando l’avvicendarsi delle stagioni

dell’uomo in una storia di salvezza: «Egli lo trovò in una terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come la pupilla del suo occhio. Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali.

Il Signore, lui solo lo ha guidato, non c’era con lui alcun dio straniero»" (Dt 32,10-12).


Di questa storia noi ci sentiamo partecipi.

La guida di Dio, in tutta la sua forza e tenerezza, si è fatta pienamente e definitivamente visibile in Gesù di Nazaret.


 Clemente Alessandrino, un autore del II secolo, gli attribuì il titolo di

“pedagogo”: è Lui il maestro e il redentore dell’umanità, il pastore le cui orme guidano al cielo ( Educare alla buona vita del Vangeli, Introd.1).

Sette cose importanti da tenere sempre presenti

Imparare dal Pedagogo, Dio, che segue l’uomo, entra nella sua storia, nelle sue vicende per indirizzarlo e farlo tornare a Lui: questo il compito della catechesi.


Pensare che l’iniziazione cristiana è più ampia di quella preparazione ai sacramenti della Cresima e dell’Eucaristia, finora ritenuta prioritaria, ma questi vanno inseriti nel contesto del nostro rapporto con Dio, come vedremo.


Rivalutare il ruolo della famiglia cristiana, cercare la sua partecipazione in una catechesi appropriata per loro e il loro coinvolgimento nella catechesi per bambini e ragazzi.


Non credere mai alla propria autosufficienza, dare valore e fiducia alle persone che collaborano con noi e non solo: bisogna vivere la carità e renderla visibile.


Rispettare, pur nell’annuncio della verità, la libertà di scelta in un rapporto di dialogo e di confronto.


Ricordare sempre che siamo operai del Signore: a noi il compito di annunciare La rivelazione di Dio completata da Gesù soprattutto con la nostra testimonianza come da mandato di Gesù: “ Mi sarete testimoni fino agli ultimi confini della terra” (At 1,8).


Per ultimo, ma non meno importante, ricordiamoci sempre di comunicare con lo Spirito Santo: ci è stato inviato perché capissimo meglio le Scritture e tutto quello che Gesù ha detto e fatto per la nostra salvezza.


Insieme per rinnovarci

Con il Concilio ecumenico vaticano II si è aperta una nuova era nel cristianesimo, una nuova primavera che parlava di rinnovamento. Chi come me ha vissuto quegli anni, anzi quei giorni, si ricorderà dell’entusiasmo di quel periodo. Attiravano quelle innovazioni liturgiche, ma soprattutto, per i più attenti, un messaggio che veniva dai padri conciliari: ci sentimmo inseriti come popolo di Dio in una lunga, avvincente storia, la storia della salvezza. Una storia che veniva da lontano che incomincia con la creazione dell’uomo e parlava dell’interesse di Dio per l’uomo.

Fu la fine di un catechismo fatto di dottrine e principi imparati a memoria e diventammo protagonisti assieme a Dio della storia cristiana e degli uomini.


Sono passati più di cinquanta anni e si sente il bisogno di un nuovo rinnovamento, causa sempre l’uomo, questa creatura tanto amata da Dio, ma altrettanto debole e incostante.

Ci siamo allontanati da quello che per molti di noi erano certezze, per inseguire le novità di un mondo in un vertiginoso cambiamento, che attraggono, affascinano e ti ubriacano fino farti dimenticare di Dio, del suo amore e dell’amore che dobbiamo al nostro prossimo, incominciando dai nostri figli, dalla nostra famiglia.


Oggi ci viene offerta un’altra occasione per ricominciare un nuovo cammino di rinnovamento e, come chi ha perso la bussola che lo guidava, siamo alla ricerca di un nuovo punto di partenza, forse di un aggancio, di una mano che ci aiuti a rivedere la nostra storia, i nostri errori: questo nuovo inizio lo chiamerei insieme, insieme edifichiamoci con la vita buona del Vangelo.


Una catechesi che ci faccia scoprire la nostra storia:

Non è questo il luogo di esporre un programma dettagliato di catechesi, bensì si vogliono dare delle tracce per riflettere, trasmettere, vivere insieme.


Cerchiamo di stabilire a chi potrà essere rivolto questo programma di catechesi:


 Premesso che il compito della catechesi è quello di proporre la fede e di darla, non darla per presupposta, e che la catechesi non è opera di singoli, bensì dell’intera comunità ecclesiale, ci rivolgiamo a:


-         noi stessi: abbiamo sempre bisogno di approfondire le verità in cui crediamo, verità da capire bene per vivere meglio, non ci basterà una vita. Per saper introdurre altri all'incontro vivo con Gesù è necessario che noi per primi lo abbiamo udito, visto, contemplato.


       - le persone più vicine a noi, la nostra famiglia: essere testimoni in mezzo a loro


-         i bambini dai 6 ai 10 anni

-         I ragazzi dagli 11 ai 14 anni

-         i giovani dai 15 anni in poi

-         I fidanzati in vista del matrimonio

-         giovani sposi con bambini da 0 a 6 anni

     - le famiglie: con lo stesso occhio attento e amorevole con cui guardiamo i nostri

ragazzi, guardiamo anche agli adulti che li hanno generati e che hanno il delicato compito dell'educazione.

-         le persone anziane nel rispetto spesso della loro fede semplice e tradizionale

-         gli ammalati, “fonte di ricchezza per tutta la chiesa” (Giovanni Paolo II)

-         gli extracomunitari, soggetti da comprendere, accogliere e amare.



Un programma di catechesi deve trasmettere il contenuto della Parola di Dio secondo le due modalità con cui la Chiesa lo possiede, lo interiorizza e lo vive: come narrazione della Storia della Salvezza e come esplicitazione del Simbolo della fede, le verità di fede: Sacre Scritture e vita della Chiesa, comunità del popolo di Dio che vive dell’Eucaristia e di momenti di vita comune.

Una catechesi che non solo accompagni la fede, ma la proponga e la susciti.



“Già al tempo dei Padri la Chiesa aveva compreso che l’iniziazione cristiana si doveva configurare come un itinerario progressivo, perché la vita non si educa in un istante, ma ha bisogno di un lungo percorso per maturare.


 E, contemporaneamente, aveva chiaramente intuito che la catechesi doveva lavorare non in maniera unidimensionale, bensì a partire da tutte le dimensioni costitutive dell’esistenza cristiana.


È necessario, allora, nel rinnovamento dell’iniziazione cristiana recuperare con forza questa prospettiva di un cammino che non si esaurisce nella preparazione alla celebrazione dei sacramenti, che pure è essenziale, ma che si pone come meta la maturazione di una mentalità di fede.

La storia del catecumenato antico insegna che questa maturazione la si raggiunge lavorando contemporaneamente su quattro dimensioni costitutive

dell’esistenza cristiana:

-         la professione della fede, ( non solo professare ma conoscere n.d.a.)

-         la celebrazione dei misteri, e liturgia della Chiesa

-         la vita in Cristo,

-         la preghiera cristiana,

   

...Facendo tesoro di questa struttura, il cammino proposto dalla catechesi dovrà sapientemente intrecciare:

la qualità del percorso formativo che permetta di conoscere ed amare la fede per giungere a professarla pienamente nel Credo.

la bellezza della celebrazione liturgica nella quale i nuovi credenti si inseriranno progressivamente,

la maturazione di scelte di vita cristiane accompagnata dall’incontro con chi già vive il vangelo nella sua esistenza quotidiana nel mondo,

l’accompagnamento nella preghiera personale, attraverso la scoperta dei modi della preghiera cristiana … per giungere alla capacità di discernere nel proprio cuore la volontà di Dio (Andrea Lonardo, Quali orientamenti per il rinnovamento dell’iniziazione cristiana?”  ELLEDICI ).